giovedì 13 luglio 2017

L’OMBRELLONE PROTETTIVO DEL “WHITE PRIVILEGE"

“Ho abbracciato mio figlio per la prima volta il 31 marzo 2008 e da allora niente è stato più come prima. Sono stati otto anni intensi, splendidi, ricchi di emozioni, tanto amore e mille esperienze.
La nostra è quella che i tecnici definiscono “una adozione riuscita”. Che A. fosse un bambino speciale ce lo avevano detto tutti, dai referenti dell’ente, al personale dell’istituto, ai genitori che erano andati ad abbracciare i loro figli prima di noi. Solare, sensibile, intelligentissimo, A. sapeva (sa) farsi voler bene dovunque vada. Ha un sorriso che conquista, una gentilezza d’animo e una capacità empatica davvero uniche. Potrei parlare giorni e giorni di lui, dei nostri primi tempi insieme, di come abbiamo (ri)costruito, passo dopo passo, un legame genitori-figlio che sentiamo davvero profondissimo. Ma ora A. ha 15 anni, ha iniziato le superiori, ha cominciato ad allontanarsi dalla famiglia, dal paesello dove ha vissuto tutti questi anni, dalla cerchia di persone che ha imparato ad amarlo ed apprezzarlo per quello che è. Ed è di questo momento importante che vi vorrei raccontare. Perché si parla spesso di bambini adottati, ma poi questi bambini crescono, diventano ragazzi e adulti. Purtroppo però l’aggettivo “adottato/adottivo” resta appiccicato loro come uno zainetto che si portano sempre appresso. Uno zainetto che spesso contiene, tra le cose più “pesanti”, anche l’essere somaticamente diverso dai genitori e da tutte le altre persone che stanno intorno a loro.
Mio figlio è nato in India. Oggi ancora più di ieri sono profondamente convinta che l’aspetto della diversità in generale e della diversità somatica in particolare non sia trattato con sufficiente attenzione durante l’iter adottivo, sia dai Servizi sia dagli enti. Nei mesi di attesa e di preparazione all’arrivo dei nostri figli, psicologi e operatori ci parlano della ferita dell’abbandono, delle conseguenze dell’istituzionalizzazione prolungata o della deprivazione affettiva e di tanti altri aspetti fondamentali per la nostra e la loro vita futura. 
Ma se qualche genitore si azzarda a esprimere il proprio timore che un bambino proveniente da un altro paese, ad esempio l’Africa o dall’Asia, possa avere difficoltà a integrarsi a scuola, nella società o sul lavoro viene spesso tacciato di poca apertura mentale, se non addirittura di razzismo. Io stessa per avere esposto questi miei timori, sono stata invitata da un operatore dell’AUSL a “entrare in contatto con più stranieri”. Un suggerimento che mi ha messa così in crisi che mi sono sentita in dovere di partecipare, insieme a mio marito, alla festa annuale di un ente che adotta dall’Africa. Solo per avere la conferma che mi sarei portata a casa ogni singolo bambino che ho incontrato in quella giornata.
Non ero quindi razzista. Ero solo una mamma realmente preoccupata di portare un bambino in un ambiente che lo sapesse accogliere in tutta la sua peculiarità. Ora che mio figlio è con noi da otto anni posso dire con cognizione di causa che le paure espresse da quei genitori, me inclusa, riflettono difficoltà oggettive, situazioni di vita vera a cui mio figlio, i nostri figli, sono esposti giorno dopo giorno. Negare o minimizzare questo aspetto dell’adozione internazionale non aiuta nessuno. Soprattutto non aiuta i nostri figli. 
Negli Stati Uniti, nazione molto più multietnica di noi e con una lunga esperienza in materia di adozioni internazionali, si parla da tempo di ‘white privilege’ (privilegio bianco / dei bianchi) per definire quella serie di piccoli privilegi, vantaggi, trattamenti di favore, di cui godono le persone bianche, spesso senza neppure accorgersene.
Il fatto che un ragazzo o una ragazza bianca abbiano meno probabilità dei coetanei di colore di essere fermati da una pattuglia della polizia. Il fatto che negli esercizi commerciali (negozi, ristoranti, ecc.) i commessi tendano a trattare meglio i clienti bianchi rispetto agli altri. Il fatto che ogni volta che c’è un controllo di documenti (alla dogana, in aeroporto, all’ingresso dello stadio) le persone bianche passano più agevolmente rispetto agli altri. E via di seguito. 
Credo che ogni genitore adottivo con un figlio di etnia diversa, soprattutto se grandicello, sa di cosa sto parlando. Fintanto che questi nostri figli sono piccoli, camminano mano nella mano con noi, sono al nostro fianco, sono sotto l’ombrello protettivo del “nostro” ‘white privilege’. Sono serviti e riveriti nei ristoranti, ricevono attenzione e sorrisi dai commessi, vengono guardati con benevolenza in situazioni sociali e via di seguito.
Ma man mano che crescono, man mano che si allontano da noi e si avventurano nel mondo da soli è come se uscissero da quella cupola di protezione che il nostro ‘white privilege’ garantiva anche a loro. 
Lo vediamo dalle piccole cose: dall’occhio attento dal commesso che non perde d’occhio nostro figlio se entra da solo in un negozio, o dalla gelataia che, più o meno inconsciamente, serve prima tutti gli altri bambini e poi nostro figlio. O ancora dai modi con cui qualche mamma o ragazzino più grande si permette di apostrofare nostro figlio ai giardinetti quando siamo lontani, salvo poi cambiare atteggiamento quando si accorge che lui è “con noi” o, come ci riferiscono amici, dagli sguardi ammiccanti con cui sono accolte le figlie adolescenti, dalla pelle scura o i tratti orientali quando è al ristorante con papà. Situazioni più o meno pesanti. Situazioni che difficilmente accadono ai figli biologici, o comunque somiglianti ai genitori. Situazioni per le quali i soliti americani hanno già trovato un nome che dice tutto: microagressioni. Inutile girarci intorno o negare l’evidenza: i nostri figli iniziano a subirle molto presto, molto probabilmente le subiranno per tutta la vita, e tocca a noi insegnare a loro a difendersi.
Il problema è che noi non ci siamo abituati. Perché a noi, bianchi in una società di bianchi, non sono mai capitate. E allora la prima tentazione, di fronte allo sgomento o alla sofferenza dei nostri figli, è quella di minimizzarle, di banalizzarle, di dire ai nostri figli: “Fa finta di niente”, “Smetteranno”, “Sono stupidi, non li ascoltare”. Un altro approccio, forse ancora peggiore, è quello di tentare dei parallelismi con le nostre esperienze di esclusione (in fondo chi non è stato escluso da un gruppo, almeno una volta nella vita, o non ha subito qualche sopruso dal bullo di turno)? Niente di più sbagliato, perché non sono la stessa cosa. Le microaggressioni o aggressioni razziste che subiscono i nostri figli sono diverse da quelle che possiamo avere subito noi. Perché agiscono a livello più profondo e tendono a minare quel legame così faticosamente creato tra noi e loro. Perché, appunto, creano un “noi” e un “voi”, tendono a separare ciò che noi vorremmo indissolubilmente unito. Non è un caso, credo, che da quando mio figlio ha iniziato le superiori, in una città a 40 km dal nostro paesino, ha iniziato a usare la espressione “voi italiani”, mentre fino all’anno prima diceva, pieno di orgoglio,“noi italiani”. 
Non so come vivano questo aspetto le famiglie adottive che abitano nelle grandi città, con una presenza massiccia di stranieri. Ma i ragazzi adottati che abitano in piccoli paesi come il nostro sperimentano il loro essere diversi in modo molto intenso: dalle elementari alle medie mio figlio è stato l’unico ragazzo di colore in classe, l’unica persona di colore in chiesa, l’unico scout di colore nel reparto, l’unico ragazzino di cui si sarebbero ricordati se, putacaso, avesse fatto una marachella con un gruppo di amici. I nostri ragazzi, soprattutto gli adolescenti, si trovano ad essere, loro malgrado, sempre riconoscibili e identificabili, in un periodo della vita in cui l’unica cosa che vorrebbero fare è scomparire, fondersi con il gruppo, essere uguali agli altri. Non sempre ci raccontano tutto quello che accade loro, anzi, raramente. A volte lo sappiamo dagli amici, dagli altri genitori. A volte non veniamo a sapere nulla. Ma le cose succedono, purtroppo. Temo che tante siano le situazioni pesanti, di discriminazione che subiscono senza raccontarci nulla. Forse per non soffrire ancora, forse per non fare soffrire noi.
In questa parte di mondo dove gli eroi dei film sono sempre bianchi, gli indiani perdono sempre, gli asiatici fanno sempre la parte dei cattivi o parlano con un accento stupido e i bambini africani degli spot sono sempre malnutriti e ricoperti di mosche, è difficile per loro trovare esempi positivi da seguire o modelli con cui identificarsi. Il rischio, al contrario, è pensare che l’essere “non bianco” sia un disvalore. Che l’essere diverso anche somaticamente differente sia un ulteriore motivo di separazione e allontanamento.
È invece importante che apprezziamo e valorizziamo noi per primi tutto il loro preziosissimo bagaglio di diversità. Ed è ancora più importante che insegniamo ai nostri figli a essere orgogliosi di quello che sono: del loro aspetto, delle loro origini, del loro paese con il corollario di storia, tradizioni, cultura, arte. Nel momento in cui io e mio marito abbiamo adottato A. abbiamo adottato anche il suo paese. Ci consideriamo una famiglia italo-indiana e abbiamo cercato, in modo in modo molto empirico, approssimativo e forse anche grossolano, di colmare le nostre lacune e di mantenere il più possibile quei legami di nostro figlio con il suo passato. In questi otto anni, ad esempio, abbiamo fatto il possibile perché non perdesse la sua madrelingua, perché se mai avesse la fortuna di rintracciare qualche membro della sua famiglia biologica, vorremmo che potesse conversare con loro nella loro (e nella sua) lingua. E ancora seguiamo insieme le vicende dei nostri attori kannada preferiti di cui A. ha i poster affissi in camera, cerchiamo e condividiamo spesso notizie sull’India, abbiamo lavorato per colmare le nostre lacune sulla storia, la cultura, l’arte, la cucina del suo paese, parliamo spesso dell’India e di chi è rimasto là e di un possibile ricongiungimento.
Anche a costo di dire cose scontate (spero infatti che la maggior parte dei genitori adottivi si comporti già in questo modo) mi permetto di suggerire di aprirvi il più possibile al mondo, di mantenere o creare contatti con altre famiglie adottive, di fare in modo che vostro figlio viva la propria realtà di figlio adottivo come normale o perlomeno diffusa, consentitegli di condividere questa sua esperienza con altri bambini che stiano vivendo la stessa esperienza. Non chiudetevi a riccio, non minimizzate, non sminuite. 
Credo che il nostro compito più importante, come genitori adottivi, sia aiutare i nostri figli a ricucire, nel modo più naturale possibile, il loro passato con il loro presente e il loro futuro. Dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze di creare un continuum il più possibile fluido, accettabile, vivibile. In un mondo a parole sempre più multietnico, ma in realtà ancora profondamente razzista, dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e chiamare le cose con il loro nome. Dobbiamo anche avere il coraggio di alzare la voce quando serve, di litigare con vicini, amici e parenti, di troncare amicizie e cercarne di nuove, di ripensare e ribaltare tutta la nostra vita. Lo dobbiamo a loro, che non hanno scelto, ma che sono stati adottati da noi genitori e trasportati dall’altra parte del mondo, in una società dove sono e saranno sempre diversi.
Preparatevi, cari genitori in attesa, perché c’è da lavorare.”

Riflessioni di una madre adottiva